(di Cristian Ceresoli)
Indice
Oggi sono arrivato passando tra i boschi.
Il mio nome è Poésio.
Poésio Lottatori.
Piacere.
Oggi sono arrivato in questo villaggio di poche case e un tendone. Sono in fuga. Ma la mia fuga è segreta. E il mio nome inventato.
Soltanto il cognome in qualche modo fa rima con quello dei miei genitori, che di mestiere muratori.
Mio padre andava di cazzuola, e mia madre metteva di stucco.
Mio padre sosteneva che il mondo l’avesse costruito un suo parente.
Ne andava fiero, pur ammettendo che qualcosa era storto.
Mia madre morì, sotto colata dal cemento, alcuni mesi prima ch’io nascessi.
Ma ho soltanto cinque giorni, e non c’è tempo a dilungarsi.
Soltanto cinque giorni prima che i dottori si accorgano della mia fuga.
Sono arrivato passando tra i boschi, in questo villaggio, e quel che farò sarà ciò che mi è proibito dai dottori: scrivere.
E allora perdonatemi, ma avrò bisogno di scrivere.
Scrivere per cinque giorni.
Scrivere tutto.
A cominciare da voi che mi leggete adesso.
Adesso, voi che leggete,
per esempio,
l’ho scritto...
E scriverò. Scriverò tutto il resto che in cinque giorni, prima dell’arrivo dei dottori, succederà tra queste case, un tendone, i boschi, e i bambini. Molti bambini.
A proposito: mentre scrivo una bimba salta ballando su un tavolo, tre commensali le cantano il contorno, e sul giornale nazionale, stesso giorno, una bimba, più o meno stessa età, giace ricoperta da un lenzuolo.
Un bambino richiama la bimba, che non vuole si parli di loro, alle spalle. Un altro di loro prende un cane che appendendosi a un pezzo di lenzuolo, lo trasforma in un cane volante.
Pare siano in atto, da parte dei bambini, e nei confronti degli adulti, delle ribellazioni.
Capiremo poi, che sono mai, queste ribellazioni.
Di che tipo di movimento o di lotta si tratta.
E se i capi di questo movimento hanno intenzione di passare alle armi, alle lenzuola, o fare uso della parola femmina
che è il mio nome.
Ma il mio nome è inventato
e la mia fuga segreta.
Non cercatemi.
Ché quando sarò di nuovo
rinchiuso,
proibito a scrivere,
tornerò a fare il verso dell’ippocastano
e a scatenarmi come un geko
gridando agli infermieri
che mia madre è morta nel cemento,
e la mia stirpe ha fatto il mondo!
A domani.
Stesso posto, stessa ora.
Poésio Lottatori
Perché i bambini non ce la fanno più.
Ho avuto l’onore di essere invitato, da uno dei capi delle ribellazioni, nella loro tana, sugli alberi.
Mentre camminiamo uno dei capi della rivolta (una bambina) guida il trasporto di alcuni pezzi di legno necessari a rinforzare le barricate,
costruire un tavolino,
un bell’arco di settanta metri,
una freccia di trecentocinquanta chilometri,
un ponte levatoio,
e un cavallo di Troia.
Mentre camminiamo la bimba, uno dei capi, mi spiega che il loro movimento di lotta nasce da una insoddisfazione nei confronti dei grandi, e che loro, i bambini, non ce la fanno più.
Allora con le loro armi li uccideranno tutti, li uccideranno tutti per finta, sostiene la bimba.
Quando? le chiedo.
Forse dopo, mi risponde.
Durante il trasporto la bimba tira un calcio negli stinchi a un altro bimbo (suo compagno nella lotta) accusato di non voler dividere il suo tavolino con gli altri.
Sei un bastardo, gli dice.
E tu una bastarda, le risponde.
E riprendono il cammino.
Noi vogliamo stare fermi, e i grandi ci vogliono far fare troppe cose... per questo, li distruggeremo. Li distruggeremo tutti.
Insiste la bimba.
Al grande tendone, qualcuno sta invece studiando a crocifiggersi.
Tu cosa studi?
Io pubbliche relazioni, terzo anno, e tu?
Crocifissioni, trentatreesimo...
Ancora molti esami?
Spada nel costato 2, Sputi dalla folla 1, e Bacio di Giuda orale...
Lo studioso di crocifissioni lo si incontra a tavola, al momento del caffé, circondato da un gruppo di donne che nell’occasione, a proposito di un argomento che mi sfugge, si definiscono squali... ma che a considerarle nel loro insieme, a me, paiono più delle vongole morte.
Nel senso che dentro ci devono avere delle perle...
Oppure son le conchiglie che morendo fan le perle?
E se penso a tutte le vongole morte che conosco
e ho conosciuto,
allo studioso di crocifissioni
e altri
(sia che facciano canzoni, che siano saltimbanchi,
o facciano panche, o figli)
e molti altri,
(ma non moltissimi)
io penso
che le loro perle
vanno più spesso gettate ai porci...
E penso meriterebbero più rispetto, perdio...
Chi?
Ed è pure per questo che spesso le vongole morte, e gli studiosi di crocifissioni, nonostante una smodata passione per il riso
si ritrovano tristi
apparentemente avviliti
ma con sotto, io credo,
due perle così.
Ma se proprio volete, schiacciatele sotto il tacco: i loro gusci sono fragili, e a morire muoiono prima.
Ma sotto,
due perle così.
Chi?
Che?
Perdonatemi, è solo il bisogno di scrivere che mi spinge a tanto sproloquio. E non turlupinatemi: tra quattro giorni sarò di nuovo rinchiuso, e impedito dai dottori.
La bambina coperta dal lenzuolo del giornale di ieri si è scoperto essere sorella a un bambino cui son state amputate le gambe.
Durante la sera qualcuno è venuto a sapere chi sono, e del mio bisogno di scrivere. Allora alcuni, scoprendomi, si sono avvicinati per cercare di entrare in queste righe – offrendomi le più bizzarrie, e gli atti più memorabili.
Due comici spaventati si sono avvicinati a me ostentando fischi da osteria. Uno di essi prosegue seminando mozziconi di sigaretta dovunque, ha le basette larghe, e spera ne vengano degli alberi.
Un uomo (salutandomi da lontano) urina sulla tenda del vicino, perché la tenda del vicino è sempre più assorbente.
Un altro tra gli alberi strangola nel modo più sensazionale possibile il proprio cane, con un reggiseno di seta, e gridando a squarciagola: campioni del mondo! campioni del mondo! campioni del mondo!
E io, che proprio per questi diari (va detto) posso disporre di due pasti caldi al giorno, li scrivo. E siccome ho molta fame, e l’altro giorno nella tana dei capi delle ribellazioni da mangiare mi han dato solo fili d’erba al forno e ghiaino impanato, cercherò in tutti i modi (in tutti i modi) di convincere i bambini che forse – questi grandi – si può aspettare ancora un poco a sterminarli.
A domani.
Poésio
Pioggia.
Sassi.
Pioggia.
Canzoni.
Coperte.
Tendoni.
Risate.
Sguaiate.
Urla.
Sussurri.
E grida.
Grida.
Lontane.
Bambine.
Dilaniate.
Bambine.
Sugli alberi.
Sopra tutto.
A incitare.
Commozioni.
Ribaltazioni.
Rivoluzioni.
Ribellazioni.
E commozioni.
Tenute.
Strette.
Dentro al viso.
Delle attrici.
Nelle prove.
Dentro al viso.
Delle attrici.
Contenute.
L’emozioni.
Provocate.
Chiusi gli occhi.
Immaginare.
Fallo ritto.
Spettatori.
Via la luce.
Minestroni.
Cani.
Zuppe.
E gl’occhi.
In vino.
Incrinati.
Fondi.
Tè bagnati.
Nei bicchieri.
Dagli scrosci.
Piove menta.
Movimenti
Le marchette.
Prese femmina.
Dai maschi.
Già civili.
La corrente.
Sulle schiene
Già graffiate.
Di ansimi.
Sospiri.
E pioggia.
Pioggia.
Tra le tende.
Flamenco.
Sassi.
E vento.
Capelli sparsi.
Biondi.
Martelli.
Legna.
Pozze.
Grandi bocche.
Tazze.
E fulmini.
Lingue.
Che bruciano.
Mani.
Che spingono.
Dita.
Che azzannano.
E morte
al chiuso
nel tendone
ma vita
(stesa)
per strada tra l’erba e il vento, il vento matto che io non so trovare che io non so cercare e non so dire non so prendere e non voglio sapere non voglio sapere, non ditemi niente non spiegatemi non portatemi non ditemi e non spiegatemi – cucchiai – che non voglio capire e non voglio più scrivere non voglio più scrivere e cadere – tazzine – tra le cose (come cosce) mantenendo sempre duro sempre alto questo nervo della mia immaginazione, ché di quello che succede nei tendoni e nelle tende – pentoloni – tra le piogge sotto voci tra le bombe nelle guerre sui giornali le gambette là amputate, qui in campagna sotto al freddo – tamburelli – sotto l’umido nei piedi e sempre code di persone di pensieri e sopra i seni – fisarmoniche – mi ci voglio io nutrire e ci voglio ricadere: non mi prendano i dottori e si fuggano i bambini – fisarmoniche e violini, voci roche e scherzi in versi – e ci scaldino le luci e si trovino i ripari dove madri – canti in coro, tarantelle, pizzicate, stessa stanza, piena notte – dove madri con le tazze tra le mani al mattino danno il latte alle bambine: aggrappate, abbracciate – abbracciati, aggrappati nella stanza, stessa stanza, e le canzoni con violini e le coperte alle pareti, trenta salti nelle danze con il ritmo costruito sui bicchieri, pentolame, sei cucchiai e in verso ai santi doppie voci, triple voci... che canzoni! che canzoni! queste qui ribaltazioni, queste qui ribellazioni! che mi danno da pensare a rimandare in generale lo sterminio ammazzamento dell’armata generale degli adulti che la notte con cucchiai e sbarazzine su le gonne e freddo fuori si ritrovano a ballare... ma le mamme? ma le mamme... le ammazzate? le ammazzate?
Ma le mamme,
voi bambini delle gran ribellazioni,
le ammazzate?
Sono seduto a scrivere e giusto alla parola “pentolame”, una decina di righe fa, si avvicina proprio uno dei capi delle ribellazioni. Il principe Claudio.
Il principe Claudio si avvicina a mano armata, e con un fucile a doppia canna mi crivella il cervello.
Ti ho fatto male?
Continuo a scrivere.
È finto... e è pure rotto...
Cerco di restare concentrato, non rispondo.
Ti ho sparato l’aria?
Tento di continuare, scrivo e mugugno.
Cos’è questo?
Mi mostra il disegno di due cavalli impresso sul fucile.
Sono due cavalli?
Silenzio, non mi giro, non rispondo, se perdo la concentrazione è finita...
Lo sai che io c’ho un arco vero? Me l’ha regalato un cacciatore... non gli serviva più... adesso c’ha il fucile...
Annuisco.
Scherzavo!...
Mi tira un braccio.
Io c’ho quello di legno... però la punta ce l’ha appuntita... Tutti si spaventano con la punta appuntita... Hanno paura di morire... Tu ce l’hai la playstation?
A questo punto sono rapito dall’argomento che riguarda la morte, e dico: ma perché hanno paura di morire?
Perché non vogliono andare in cielo.
E perché non vogliono andare in cielo?, insisto, quasi con gusto, visto che adesso sarò io a tormentarlo di domande – a questo piccolo assassino...
Perché non vogliono andare in cielo?
Perché sono divi...
Chi?
Noi.
E perché siamo divi?
Perché siamo essere umani... Non la sai la storia dei morti?
Che storia?
Immagina te che sei morto...
Ma io non sono morto!
Se ti sparano muori...
Ma io non voglio morire!
Immaginati che muori...
Ma perchè non immaginiamo che muori tu?
Va beh, non parliamo più di queste cose.
Perché non vuoi parlarne più?
Io sì che ce l’ho la playstation, lo sai chi me l’ha regalata? Me l’ha regalata mio zio, che è molto più alto di te...
Ah sì?
È un essere umano come te... come tutti...
Ma senti, principe Claudio – gli dico – tu lo sai cos’è la poesia?
Le discussioni...
Le discussioni?
Sì, le discussioni... è quella la poesia.
E senti – spietato – tu lo sai cos’è la lotta?
Sì: è una cosa che si da i pugni, si spara, si da i calci, si corrono come i matti, poi c’è il cavallo che tira le frecce...
Ma ti piace la poesia?
Sì...
E la lotta?
Sì, sì...
Ma ti piace di più la lotta o la poesia?
La lotta e la poesia, tutte e due...
E tu vuoi morire?
No...
Perché?
Perché non voglio: mi nascondo sempre quando ci sono i fulmini, mi nascondo dappertutto...
Ma scusa, principe Claudio, che cosa c’entrano gli uomini con la lotta?
Eh... gli esseri umani combattono... così sono campioni.
E la poesia?
Con la poesia fanno l’amicizia...
E quando muoiono, dove vanno gli uomini, quando muoiono, principe Claudio?
Gli uomini vanno in cielo.
E quando muore la poesia, dove va la poesia?
Quando muore la poesia non c’è più niente.
Ci sono gli uomini e basta.
...
Ci abbracciamo. Gli bacio la testa.
E mi lascia il suo fucile.
Poésio L.
Di questo villaggio in cui sono arrivato non mi piace chi crede che questo villaggio è diverso. Che questo villaggio è meglio di altri, e che altri per il fatto che non sono come questo vadano condannati.
Io per esempio son sicuro che questo villaggio è diverso da altri. E condanno volentieri tutti gli altri. Poi, passati tre minuti, cambio idea. E nel frattempo ci sto bene. Dopo tre minuti malissimo. Mi sento disperso. Solo, come tutti. Poi, dopo altri tre minuti, mi sento bene ancora. E complessivamente credo di stare nel migliore dei villaggi possibili.
Io sto certamente dalla parte dello sterminio degli adulti, da come si era capito. Io, da ieri, sono arruolato nell’esercito delle ribellazioni. Ma godo del ritmo dei cucchiai, dei bicchieri, e le voci squarciate dei grandi. E dei grandi di questo villaggio godo le minime e continue umanità, che a nominarle, come direbbe un mio parente, sarebbe perderle.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ‘l tacere è bello,
sì com’era ‘l parlar colà dov'era.
Dal punto di vista metrico questa è una terzina a endecasillabi incatenati. Un endecasillabo è un verso di undici sillabe. E la rima incatenata è, letteralmente, la cosa più genetica che esiste, se si pensa.
La mappa del DNA che compone gli umani, per esempio, lo dicono i dottori, corre all’impazzata incrociandosi alla stessa maniera. Gli uomini (che sono divi) corrono e scivolano a una velocità vorticosa – peccato poi che i peperoni, i cetrioli, l’aglio, la poltrona, e certe notizie di bambini ricoperti da lenzuola...
Di questo villaggio mi sono stancato di ascoltare che a proposito della poesia si parli solo di poesia. Di quella che si scrive.
La poesia, come sostiene il principe Claudio, non è solo scrivere o cantare. E non è nemmeno solo l’arte – io credo. Certamente può essere strumento di bellezza, e ciò che è bello (che non vuol dire accomodante o piacevole) è pure buono. E ciò che è buono è pure bello – come sosteneva un altro mio parente in mutandoni, durante una vecchia ribellazione (non-violenta e senza armi) culminata nel sangue questi stessi giorni cinquantanove anni fa.
Ma cos’è la bellezza? Fa sangue?
Forse è bello quando un divo (un umano) sul suo DNA mantiene incatenate delle rime, delle volontà, che gli provocano nel sangue delle ribellazioni. Delle ribellazioni continue, e permanenti.
Per esempio (ma io non faccio testo) la ribellazione che teneva nel sangue, e l’umido sugl’occhi nel presentare i propri pensieri, ieri, una signora riccia di capelli e con le zeta nel parlato – mi sembra in se un’evidente testimonianza che la poesia non si sa cos'è, ma c’è.
E se c’è, si sente.
E mentre questa signora ce la faceva sentire, il principe Claudio dormiva abbattuto tra le mie braccia.
L’avrà sentita?
Sentite: io di questo villaggio non mi piace per niente questo fatto che uno si mette a scrivere il cinque di agosto le cose che gli piacciono e quelle che no. Io odio questo aspetto della scrittura. Odio che possa andare sopra, vedere da sopra, dire da prima. Odio. Non mi piace. Non sono d’accordo. E odiandolo, questo aspetto, odio pure il fatto che mi piace – questo aspetto.
Perché non sono mai quello che vorrei essere?
Lo chiederò ai dottori.
Di questo villaggio mi piace il capitano Primo, sempre dell’esercito delle ribellazioni, che avvicinandosi al mio tavolo mi dice che la polesìa, quando muore, se la porta il vento. E questo vento, forte, la spinge nei paesi dove c’è il vento sempre. Però – aggiunge – la mamma è molto meglio della polesìa. Perché?
Perché mi dà i bacini.
A proposito di bacini: il capo di un insieme di villaggi, un po’ lontano (e che io conosco solo dai giornali), anche lui dice di preferire la sua mamma alla poesia. Poi, trovandosi a combattere una guerra necessaria, chiede scusa se le bombe del proprio esercito si sono schiattate su le mamme di altri.
Ma per l’appunto quelle son mamme degli altri.
Che ambiguità...
Di questi diari mi piacciono le ambiguità, le contraddizioni – e il fatto che poi arriva sempre qualcuno che trova, in questo contraddirsi, delle straordinarie analogie di senso.
Non mi piace quando qualcosa di ambiguo si scrive, o succede, o si dice – e poi arriva qualcuno che ci trova sempre un’analogia di senso.
Cos’è un’analogia di senso? A me l’uomo dalle basette larghe mi piace. Mi piace tanto. Mi piace che ogni volta che ti rivolgi a lui fa come se fosse una festa. Come se randagio corresse dietro a tutti i pretesti di festa. È proprio un deficiente, e lo denuncerò ai dottori.
Io non mi piace cosa si dice degli impiegati in questi giorni in questo villaggio. Come vengano trattati da diversi.
Ma chi sono gli impiegati? E gli ebrei?
Dovremmo forse fondare un nuovo stato dove far convergere tutti gli impiegati della terra?
Io odio mio fratello, per il fatto che fa l’impiegato, e pensa come un impiegato.
A proposito di mio e di tuo: a me non piace il giorno in cui uno dei capi del villaggio, un adulto, mi ha suggerito di considerare gli argomenti di poesia e lotta in questi diari. Non mi piace il fatto che quel giorno abbia utilizzato la frase: perché mi serve. Primo perché servire non serve a niente. E, se proprio per questo finisse per servire a qualcosa, caso mai serve come un cameriere, e certamente non mi.
Di questo diario non mi piace il tono serio di oggi, e allora vi confido una scoreggia. Una scoreggia che ho fatto adesso, di quelle che ti fanno dubitare se ti abbiano sporcato la mutanda.
E poi mi è stato espressamente richiesto di inserire un po’ di chiacchiere, un po’ di confidenze. Allora vi dirò che in questi giorni ho visto più e più volte femmine (impegnate) entrar nelle tende di altri. Uno di questi è un uomo delle Sicilie, e con la scusa di insegnare a una giovane il canto tradizionale, ne ha approfittato per darle di petto. Lo stesso uomo dalle basette larghe, prima che morisse, si è appartato con il cane strangolato dal reggiseno di seta. (Morisse il cane). Due maschi, addetti alle cucine, ci tengono a precisare di non essere impegnati e quindi liberi sulla piazza. L’uomo dei caffé va pazzo per la meridionale con l’organetto. La signora dalle zeta nel parlato, quella della ribellazione nel sangue, e gli occhi umidi, con la scusa di coricarsi presto si è scoperta andare al trotto con il compare dell’uomo dalle basette larghe. La scintilla è scoppiata in occasione di un discussione su la differenza tra artisti veri e buffoni. Sì, perché secondo l’opinione comune l’uomo con le basette e il suo compare sono solo due buffoni.
Questa di andare al trotto, o dare di petto, e infilarsi nelle tende, mi pare una delle più raffinate versioni di lotta. È una bella lotta andare di baci, tirar di carezze, e azzannarsi le carni.
Il ragazzo alto, un poco più divo degli altri, e con un cognome che ricorda un famoso formaggio campano, ha deciso di astenersi da questo tipo di lotta. È una scelta apprezzabile, l’ascetismo. Mi piace questo ragazzo, perché secondo me, sotto il suo aspetto da divo, tiene delle belle mutande arancio a pallini fucsia. E ci scoreggia dentro almeno tanto quanto ci scoreggio io (nelle mie). Non mi piace il fatto di essermene accorto in così tanto tempo... Chissà se anche l’opinione comune ci metterà così tanto ad accorgersi che l’uomo dalle basette larghe non è un buffone ma un artista. Che non è allegro, ma inquieto. Sempre un deficiente, ma con una bella ribellazione nel sangue – pure lui.
Magari tra tre minuti cambio idea.
E comunque di persone con la ribellazione nel sangue, e con sotto due perle così, devo ammettere di averne sfiorate parecchie, in questi giorni.
Chi vuole sapere chi sono, è sufficiente che entri nei miei pensieri, nei tre minuti d’ottimismo.
A proposito di ottimismo: credo che la musica classica sopravviva nel tempo grazie al fatto che un certo bel numero di cretini pensino che sia una cosa noiosa.
Allora forse essere considerati in negativo, e ai margini, farà certamente male... ma forse è salvifico. Salvifico? Che vuol dire salvifico?
Chi saranno i due porci girati alla brace, nella festa di domani?
La domenica del villaggio promette sangue. E grasso.
A proposito di tipi grassi. Sapete perché il principe Claudio, ascoltando una canzone dedicata alla madre, e scritta da un cantautore suicida, si è puntato sul palco il fucile alla bocca, ed è crollato in lacrime?
Perché ha nostalgia della sua mamma. E avrà pure l’arco con la freccia appuntita, e pure la playstation – suo zio sarà pure più alto di me... ma non è la sua mamma. Non ha le tette. E i guerrieri senza tette, pure se spietati, piangono...
Da cui si evince, giusto per risolvere il dubbio di ieri, che nello sterminio non è previsto l’ammazzamento delle mamme. O almeno delle proprie.
Si ripensi al capo dei villaggi lontani di prima.
Si ripensi alla mia, sotto colata nel cemento.
E si ripensi alla mia fuga, fuga che, come sapete, ha un tempo determinato. Una fine inesorabile. Oggi, e domani sarà fatta. Fine. Dottori.
Ma non è certo perché so che la mia fine è segnata, che smetterò di lottare, scoreggiare, e scrivere... giusto?
Quindi, anche se non potrò rispondervi, vi prego di scrivermi.
Chiedete negli uffici i miei indirizzi, e scrivetemi.
Scrivetemi molto. E scrivetemi tutti.
Io vi leggerò, tre minuti si e tre minuti no.
Ve ne prego.
Addio.
Poésio
Cari tutti,
vi scrivo questa lettera d’addio.
Vi scrivo a poche ore dall’arrivo dei dottori, e non c’è più tempo per nessun diario.
Queste righe sono solo la forma di un saluto.
Un intimo saluto.
Come sapete il mio nome è inventato, e da domani tornerò ad essere tredicimilaquattrocentocinque.
Non saprò mai la fine delle ribellazioni.
E mi mancherete.
Ma pure sarò contento della mia reclusione.
La mia cella non ha finestre, e cemento in tutti i lati.
Ogni giorno posso fare una domanda, e una soltanto, ai miei dottori.
E i dottori danno sempre una risposta, una risposta a tutto.
Come sapete mi è impedito scrivere, ma posso fare domande,
e avere risposte.
Il giorno che non avrò più domande, sarò giustiziato.
Quello che vi chiedo, lasciandovi questo quaderno, e di scrivere voi,
per me, una domanda.
Tante domande saranno, tanti giorni avrò da vivere.
Io, oltre a quella del perché non sono mai quel che vorrei essere, e se è vero che i riccioli della signora con le zeta sono naturali, non ne ho altre.
Soltanto due giorni.
Fate presto.
Vi prego.
Io, vivrei volentieri.
Poésio
...
NOTA
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